mercoledì 7 dicembre 2011

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indian summer
Questa sera mrs Hyde è passata in sartoria dalla dolcissima Wanda, per il piacere di visitare quel fascinoso posto e poi per certe sue faccende, anche in previsione del lancio di arancini di riso con sassi all’interno all’indirizzo di certi irresponsabili amici con certe scostumate ambizioni matrimoniali, di questi tempi, che tutti vanno discretamente a convivere, e te la potresti cavare con una bicchierata in jeans e scarpe nuove, e invece loro no.
Mah.
Risolta assai felicemente la questione, (grazie cara) si è dunque avviata con serena soddisfazione alla volta del suo piccolo palazzo scortata dal suo fido draghetto lordatore, quando si è imbattuta in una inusuale coppia di forestieri.
La signora in particolare catturò la sua attenzione, e non solo perché strillava al mite compagno come un’aragosta in pentola.
Una lunghissima treccia color pece, l’incarnato scuro, un anonimo giacchino imbottito occultatore da cui spuntavano i lembi svolazzanti di una tunica color carota lessa bordata di perline, calzoni e vezzosa sciarpina in tinta, il tutto offeso peggio dei suoi urli, da terribili scarpacce da ginnastica.
Ci furono estati, quando con la scusa di migliorare la sua consapevolezza di suddito della Regina (quella vera, coi branchi di corgie mannari, i cappellini fiorati e le borsette in tinta)  la principessa degli spaghetti veniva spedita oltremanica un paio di mesi, fuori dai piedi, e senza il suo adorato bidè.
Quei periodi segnarono irrimediabilmente la vecchiaia del pesce rosso, dei pappagallini verde e celeste e del cocker spaniel degli augusti nonnetti, riempiendo di risate, di giochi anche sadici e parole non sempre comprensibili le stanze del loro castello bipiano, e pure di bernoccoli la crapa della loro prima nipotina italiana, che mai aveva visto una casa più affascinante e pericolosa, piena di bestie e con quelle dannate scale scricchiolanti per andare a dormire.
Anno dopo anno la principessina trovava al suo arrivo piccoli tesori che la nonna, che era di una religione che non andava mai a messa, lei,  ma che comunque dava una mano in un charity shop (negozi dell’usato a scopo benefico), allora raccoglieva per la nipotina durante l’inverno e accumulava in una cesta fatata, in soffitta.
Ogni anno a giugno era una festa di natale e carnevale assieme.
Dalle bambole monche e gli orsetti guerci si passò presto ai cappellini sbilenchi con veletta, guanti di pizzo bucati, occhiali a farfalla senza lenti, collane sbeccate, autentici bracciali di brillanti finti, spille deformi e criminali, orecchini di piume, sottovesti di lurex, mantelline di pelo di gatto, scarpe d’argento col tacco quasi della sua misura…
Fu allora che nacque la mia collezione di portacipria d’epoca.
E forse fu anche l’inizio della mia carriera di piccola miss Jekill.
Fu pure un bel incentivo alle mie morbide rotondità di teenager.
Perché se il tesoro della nonna stava in soffitta, la grotta di alibabà del nonno invece stava sotto le scale.
E lì custodiva generoso e cattolicamente fiero la sua scorta di guinness, le sue stecche bianche e blu, e ogni ben di dio dolciario, le peggio porcate che solo a pensarci oggi prendo un chilo, sorridendo inorridita.
Povero nonno, quando gli tolsero la birra, le sigarette e il cioccolato, smise di lottare, e se ne andò.
Un agosto che io stavo ormai in Sardegna con gli amici.
E quindi avendo già quasi smesso col fondente, prima di mollare alcool e tabacco ritengo di doverci  seriamente pensare ancora un po’.
Il castello dei nonni però non era solo pieno di meraviglie, come il piccolo laboratorio da falegname nel garage e una giungla rampicante di pizzi a fiorellini in bagno.
Aveva infatti anche un lungo cortile umido sempre pieno di panni stesi sul retro e un delizioso giardinetto spelacchiato davanti.
E sul gradino del giardinetto, dove magicamente ogni mattina compariva una bottiglia di vetro piena di latte, e da dove ogni sera si avvistava la camionetta scampanellante del gelataio, la principessa forestiera con le sue paillettes passava un sacco di tempo a guardare il mondo.
Il mondo lì era fatto di tante lunghe e drittissime strade parallele, e piena di altre vite.
Gli altri castelli infatti erano tutti uno attaccato agli altri, tutti su due piani, col loro giardinetto e un piccolo cancello, tutti con le loro enormi finestre a bovindo, tutte colorate.
Sembrava di vivere dentro un arcobaleno.
Che forse spiega perché piovesse così tanto in quel paese.
Col tempo la principessa imparò anche a capire come non perdersi lì in mezzo, dal colore delle case, e chi ci vivesse.
E chi più invidiava nel suo piccolo cuore ignorante erano gli abitanti dei castelli verde pistacchio, viola melanzana, turchese urlante, giallo sole, marrone burro di arachidi e rosa, rosa confetto.
Perché le famiglie che conosceva lei  si dipingevano le case dei colori della bandiera: bianco brillante, rosso scuro, blu marin, e giusto qualche mezzo irlandese, verde bottiglia.
Tutti i colori di smalto che il brico tra l’altro vendeva a prezzo intero.
Però dalle finestre color melanzana o pisello, che quasi mai avevano le tende, loro, si intravedevano mondi fantastici, di creature con le teste di elefante o sei braccia, e dalle porte si spandevano profumi dolciastri e sconosciuti e canti come di chi avesse mal di pancia ma in fondo ne fosse felice. 
Scoprì molto presto, perché era una principessa sognatrice, ma anche curiosa come un macachetto mascherato, che in quelle case ci abitavano i misteriosi “Pakies”.
Li vedeva giocare per strada, o li spiava al supermercato con la nonna, o dal giornalaio col nonno.
Le femmine in particolare, avevano dei vestiti stupendi, di ogni colore, fluttuavano in questa nuvola di tulle, di perline, di ricami d’oro, che le avvolgeva dal velo sulla loro testa bruna fino all’orlo dei calzoni che nascondeva la pelle olivastra delle loro caviglie, fino ai loro sandaletti tintinnanti.
Loro sì che sembravano principesse, principesse delle fate.
Un giorno allora la nostra chiese a sua nonna perché anche lei non si vestisse così, da “Paky”, che in fondo era già una mezza specie di fata madrina, no?
Quello che la nonna rispose, in tono secco e nient’affatto da fata madrina, la piccolina non lo seppe mai.
Neanche il nonno lo volle tradurre, quando glielo chiese, per favore, scatenandogli una tromba d’aria intestinale e un fragore di risata tale che mancò poco che non gli venisse allora il suo primo infarto.
E che la piccoletta morisse asfissiata.
Però a onor del vero, in quell’occasione ci guadagnò inaspettatamente due Mars grossi come cetrioli e un Bounty da consumarsi le gengive, e si tenne così la sua curiosità.
Ci pensò molto più avanti una dolcissima e spericolata zia, la sorella più giovane di mia mamma, a farmi esplorare un po’ di più da vicino quei tesori d’oriente, quando nel quartiere venne aperto il primo take-away indiano, tra le sboccate proteste e i rimproveri scandalizzati della nonna per queste infami traditrici del fish&chips e filastrocche irriverenti del nonno scorreggione,  fervidamente affezionato ai suoi fagioli in salsa Heinz.
Per me invece fu amore alla prima forchettata, con tanto di labbro superiore sudato, occhi lucidi e colate di naso.
Da allora per fortuna ho smesso di sognare di andare in giro conciata come una stella filante, meglio così.
Ma diavolo, se c’è una cosa che mi viene bene – quando mi coglie la voglia di farlo -  è il curry.


pizza & fiche
ieri pizza & fiche.
nel senso di cena con  vecchissime amiche.
quindi oggi niente storielle fatate da raccontare, che quelle due furbone stan sempre a sguazzare nella loro (vita) media chiara, e non si sa perchè sentono settimanalmente il bisogno di farmene assaggiare un pò.
io con affetto scocciato ascolto le loro vicissitudini, annuso la loro integrale con prosciutto cotto o margherita con poca bufala, che sanno un pò di consegna del materasso a due piazze che tarda (sei mesi)  e di alterni batticuori per le piccole lotte di sopraffazione sentimentale scambiate per passione.
aspetta un attimo:  cosa intendi per  "strisciare ai miei  piedi", scusa?
questo mi incuriosisce, l'ansia di potere all'interno di una coppia.
perchè è qualcosa che non capisco, questa del dover comandare, ma che è: una guerra?
indago.
pare di sì, una guerra, non lo sapevo.
ah. 
una guerra dolce?  di quelle da camera da letto?
no no no
proprio di quelle che l'altro deve ridursi uno schiavo, un verme, un  lombrico.
mi oppongo, con la bocca piena e il baffo di birra che trema inorridito.
i lombrichi sono ermafroditi.
ma in genere come la penso io a loro non so mica se interessa.
tranne se azzecco la risposta che si vogliono sentir dare, come le cartomanti.
allora sto a sentire e sorrido, e poi ironizzo,  prendole un pò per il culo.
tanto non si offedono mai, piccine, mi conoscono.
sanno che io sono una strana, stracchino e funghi,   anche se di quelli un pò velenosi magari.
ma a me piaccio così.
e coi bordi abbrustoliti e croccanti.

dai diamanti non nasce nulla...
l'ufficio protocolli della dogana è una striminzita oasi di umanità tra tanto rimbalzar di desertici corridoi.
e forse a testimonianza della meritatissima gratitudine per quelle dolci e pazienti impiegate, o molto più semplicemente per  esubero domestico, quella stanza sembra una piccola serra.
un trionfo arbustivo di photus e saint-paulia.
che invidia.
oggi - a rincarare la primaverile ridondanza floreale - la funzionaria più loquace delle due sfoggiava un fermaglio sbrilluccicante a forma di rosa grossa come un fermacarte.
abbagliata da tanto fulgore e ammirata per la possanza cervicale di quello scricciolo di donna mi son permessa di commentare...
- che meraviglia signore, il vostro ufficio, con tutte queste belle piante, e che bei fiori!
- eggià,  visto? siamo molto fiere!
- .. e siete un pò come fiori in mezzo ai fiori...(mi scappa)
- grazie! che belle parole! (una, ridendo)
-  ci vuole proprio una donna per notarlo, qui in mezzo (l’altra, alzando la voce all'indirizzo della stanza a fianco)… a queste cacche! (più sottovoce)
- (sorrido, pietrificata dall’ imbarazzo)  ma in fondo serve anche quella, a far crescere bene i fiori, no?  
Le ho salutate, che si stavano ancora sganasciando. E io pure ho sorriso, a vederle così.
A volte basta davvero poco, per far brillare gli occhi a una donna.

Spine di pesce
Detesto insistere.
Detesto discutere.
Detesto discutere animatamente.
Detesto la puzza di stoccafisso e acciughe salate ammorbante che arricchisce il mio elegante vicino, che nel suo fetente magazzino confinante col mio ufficio ci passa 20 min al giorno e per proteggersi gli abiti dal tanfo indossa una ridicola tutina bianca da cui spunta il suo papillon, oggi rosso a pois gialli.
Detesto la sua vena classista quando insinua che se il mio locale fosse adibito anch’esso a magazzino non gli romperei i coglioni lamentandomi delle sue contagiose emissioni odorigene fuorilegge, chiedendogli di porvi rimedio.
Perché sono convinta che il naso e i vestiti di un magazziniere hanno gli stessi diritti di quelli di chi lavora a una scrivania.
È un viziaccio questo mio di voler vedere le persone, al di là dei loro lavori.
Detesto quindi di non aver altra scelta che dovermi rivolgere ad una delle mie amiche non in funzione di amica, ma di avvocato.
Ovviamente sarà un piacere pagarle la parcella.
Profumatamente.

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