giovedì 1 dicembre 2011

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kleenex story
Quante lacrime di femmina di essere umano di  h.1,60\52 kg servono a riempire un bicchiere?
Quanto brucia alla goccia un bicchiere di grappa al peperoncino la sera che t’han cavato un dente?
Brucia più un bicchiere di grappa al peperoncino negli occhi, o shampoo alle proteine urticanti della perla ingoiato?
Brucia più di un altro cuore spezzato?
Quanto dovrà passare prima di smettere di dare la colpa alla grappa o allo shampoo?
A modo mio ti ho amato, forse, e ho pianto per la mia spavalda libertà che se ne andava in aprile al vento puzzolente di pesce della notte dei vicoli, a inseguire scomposta le note beffarde di un fu poeta cantautore che musicava di rose appassite, nani e professori, mogli e puttane. Beata testarda speranza. Bruciava già, metaforicamente,  più sotto. E già da allora sapevo che un giorno avrei odiato il CKone. Che tanto la puzza di pesce la odiano tutti.
Ti ho amato, forse, e ho pianto perché non avresti mai voluto assaggiare il mio curry, “la vendetta di Ghandi”, e poi perché non usavi mai la cipolla e la bistecchiera di ghisa che faceva fumo, così mi toccava arrendermi al burro e senza manco il conforto di un soffritto..
Ti ho amato, forse, e ho pianto di fifa insonne e  innocente 24hr per gli attesi risultati di analisi scagionanti, e dopo ho pianto anche per la paura di vedere risultati di sei mesi di palestra e tonno al naturale deformati dalla ritenzione idrica e da famelici spuntini notturni, complici  e  nudi.
Ti ho amato, forse, e ho pianto quieta, consapevole che non te lo avrei mai potuto dire, perché per principio piuttosto mi facevo suora... o anche magari forse meglio chessò mi tagliavo una mano.
Ti ho amato, forse, e ho pianto a squarciagola lunghe notti di solitudine desiderandoti accanto, che la vicina insonne il giorno dopo mi ha portato una fetta di crostata, così oltre che sola, pure sempre più grassa, e quel bastardo del mascara waterproof pagato un botto non viene più via dalle mie federe.
Ho pianto dal feroce mal di testa da mirto scuro, la domenica mattina, e avevo pure finito l’aulin cazzo.
Ho pianto dagli sbadigli di sonno tanti piovosi lunedì mattina di buonumore, che l’emozione di guardarti dormire tutta la notte digrignando come una sabbiatrice idraulica mi aveva tenuta sveglia fino all’alba e a quel punto attaccavano il fornaio coi tegami della focaccia e i marocchini giù in strada.
Ho pianto di caldo estivo nel tuo letto sotto il soppalco, sudando come una cinghiala bulgara imbragata tra le lenzuola, a dar da mangiare alle zanzare e a cercare di grattarmi senza svegliarti, ma cazzo a te non ti mordevano mai ‘ste maledette?
Ho pianto di emozione nel silenzio avvinghiato dopo l’amore appiccicoso del pomeriggio.
Ho pianto di felicità sentendo di avere finalmente un’anima soffice, un cuore sazio, un sorriso negli occhi, una margherita nel cartoccio e due birre.
Ho pianto di gioia  bambina e chissenefrega per un treno che andava a Lamezia.
Ho pianto di sollievo alla delicata scoperta cercata di un amante coraggioso.
Ho pianto di frustrazione per quattrocento gradini a picco sulla ferrovia che passa lungo il mare, nell’afa di luglio coi tacchi.
Ho pianto ferma in coda, coi filari di barbera a fianco e col pensiero di una gioia taciuta, che poi poco dopo mi avrebbero chiesto chi è, cosa fa, cosa fate e quanto ne avete bevuto.. Da allora diffido anche dei Carabinieri, ma quella è tutta un’altra faccenda.
Ho pianto di rabbia con un piccolo orecchino di strass rosa a forma di muso di gatto tra le mie dita di legno. Un randagio dicesti. Da allora disprezzo profondamente Hello Kitty. E son sempre più convinta che son meglio i cani.
Ho pianto tutto lo smarrimento di una parte di vita distratta scappatami a vivere facile facile, fino a che l’ostacolo che mi ha ucciso un amico mi ha riportato nel ring dei grandi perché, a prendermi a pugni per ricordarmi cosa conta e cosa voglio veramente.
Ho pianto ingoiando l’orgoglio, ora so che è molto amaro, ma non uccide (e non contiene grassi idrogenati)
Ho pianto un po’ anche a Capodanno, ma quello era perché stavo vomitandomi l’anima e una boccia di dolcetto, lo spumante, la grappa, più qualche tiro di canna.
Cazzo se è amaro anche il vomito però.
Ho pianto per la fame di quello che hanno tutti gli innamorati, e per tutti i miei non detti  “e io ?”
Ho pianto tanto che ho perso tutti i chili presi con le tue cene, e tutti mi dicevano ma come stai bene.
Ho pianto per il coraggio che mi era spesso mancato, per educazione, per timidezza.
Ho cercato il coraggio, una fatica boia, in solitudine e silenzio mentre il resto del fastidioso mondo pensava alle renne e ai panettoni.
Poi così sono tornata a cercare te.
E poi..
E poi ho pianto di nuovo, cosa credi? Babbo Natale non esiste.
Ho pianto stavolta perché ho pensato che non lo stavi più cercando tu, il coraggio di noi.
Oggi l’hai trovato, ma era meglio se restava dov’era. Che giornata di merda.
Hai detto basta, che non era più come prima, che era finita, per colpa mia, che non avevo più voluto trovare il coraggio... 
E mi hai fatto piangere.
Finalmente.
A singhiozzi, come una quindicenne.
Perché non si finisce mai di imparare, ma cazzo, questa parte del programma la so a memoria, quand’è che arriva il dopo, quando mi tocca il paragrafo dove si prova tutti a vivere felici e contenti?
Meno male che avevo un pacchetto di morbidi fazzoletti di carta quasi nuovo.
E  che l’amica  mi ha confermato via sms che dal fondo del pozzo di  merda si può solo salire, che gli uomini son tutti dei bastardi, che era meglio così, che c’erano i saldi e  che faceva straordinariamente caldo insomma, sì le solite cose che si dicono in questi casi.
E meno male che non mi ha visto nessuno, a parte la metà dei passeggeri guardoni del 18 sbarrato che mi si è affiancato al semaforo.
Che un’altra cosa che detesto proprio è che mi si veda piangere.
Per questo io non piango mai.
Perchè ragazze grandi non si innamorano e anche col cuore in pezzi  non piangono mai.

vita da virgin (active)
A dar retta alla  teoria dei vasi comunicanti, quando è merda, è merda sparsa.
durante la pausa pranzo una poveretta non  può neanche dilaniarsi lo spirito disidratato e percuotersi  le carni sudate con i propri lacrimevoli cantanti preferiti giù per le orecchie nel momento dello sforzo fisico che le si scarica il lettore mp3.
Ho dovuto scegliere di dividere i miei 50 minuti di corsa sul tappeto tra la Clerici che mi friggeva cipolle e pancetta sotto il naso, Sky News che sorrideva disciplinato sulle disgrazie del mondo  e le vivaci vicissitudini di Vivere.
il silenzio è d'oro.

cercasi felicità perfettamente ristrutturata, termoautonoma, postoauto, astenersi agenzie
Mi avevano promesso che il mondo là fuori era felice, che la vita è meravigliosa.
Me l’avevano assicurato i single degli anticalcare, le mamme pazienti dei panni multiuso e delle lavatrici extra-large, le ragazze che valgono e che in quei giorni si librano in volo, i papà sorridenti dei rasoi bilama, i piccolini arrotolatati nelle assorbenze più morbide e poi ingozzati di merendine, me lo hanno detto loro che eravamo profondamente felici.
Me l’avevano fatto credere che potevamo esserlo ancor di più se impeccabilmente inodori, glabre o foltamente pelosi, sodi e senza rughe e  comunque guaribili in poco tempo con idonei medicamenti, per non finire un pomeriggio a cacare come ladri dietro un cespuglio o rischiare la polmonite andando lo stesso con 40 di febbre al cinema a contagiare poveri innocenti.
Addirittura a non stare attenti con rate a partire da 200 euro al mese, compreso bollo o incendio&furto, si potrebbe impazzire di felicità.
Forse c’era giusto da guardarsi da una certa golosa nonnetta un po’ fuori dal coro.
Curiosando tra uffici postali, grandi magazzini, parchi, rubriche di posta del cuore e blog allora spio sfiduciata le vite vere e pensieri scritti di una popolazione di alieni.
Quanto smarrimento, quanta solitudine e quanta rabbia ci accompagna sottobraccio, ci spinge e ci strattona, ci schiaccia.
Mi sono rotta di non  riuscire più a svegliarmi sorridendo la mattina.
Forse dovrei andare ad abitare in un banco frigo del supermercato, con aria condizionata e vista sui minestroni e pisellini primavera, o provare a  trasferirmi a vivere in tv, magari in quel delizioso spot di fanciulle felici per lo yogurt, quello proprio dopo il tg delle 20…


e pur si muove...
Oggi a pranzo io e i Placebo abbiamo bigiato la palestra.
Ho detto fanculo la Clerici e la sua onnipresente pancetta a dadini dal megaschermo, bye bye alla sfilata di abbondante carne umida di donne nude ammassate tutte proprio intorno al mio armadietto con le loro carriole di creme e bagnoschiuma, chissenefregadellasalute tanto finirò molto presto i miei giorni sola e mangiata dal mio feroce cane irlandese vegetariano.
Così ho preso e son andata all’ikea, ottimo posto per le solitarie ragazze grandi un po’ giù.
Speravo infatti di vedere qualche coppietta prendersi a cuscinate,  lanciarsi pirofile, o legarsi coi metri e poi accecarsi con le matite più acuminate, rinfacciarsi le ricette delle suocere, vomitarsi addosso colpe omesse dal Paleolitico ad oggi o misure di nicchie evidentemente prese alla cazzo di cane, lui che dice fanculo sei la solita stronza sceglile tu allora ste maniglie, o lei che  alla fine col labbro tremante si gioca l’asso della persuasione idrica...
Gnente.
Solo placide mamme sagge e figlie sposine, neo mamme un po’ spettinate coi pargoli idrofobi e un piccolo gregge internazionale di muratori schiavi delle polpette svedesi (senza doppi sensi qui, giuro).
Certo però che se fossero veramente democratici oltre alle gabbiette per cani e al kindergarten gli svedesi dovrebbero fornire a tutte le dame sotto i 40 anche un fidanzato temporaneo all’entrata,  da riporre pesto e incazzato nero nel cesto alle casse,  di fianco alle borse gialle.
Placata la crisi di astinenza per la mia dose mensile di candele, piantine da seviziare, tovaglioli di carta e consumata bramosa occhiata alla piscina di palline in bonaccia, mi concentro su quello che in effetti son venuta a cercare.
Lo scopo della mia vita oggi infatti si riduce a una qualche forma di seduta sostitutiva dello sgabello su cui passo appollaiata metà delle mie sere, che qui la versione femminile del solitario Leopardi quando s’è organizzata con l’angolo-pc non pensava di andarci così sotto con la storia del blog, e pazienza se la sorte ultimamente mi ha dato una gran mano con l’ispirazione, vediamo almeno di non dargliela vinta anche con la scogliosi.
Trovata idonea seggiolina rotante, agguantata, trasportata e già montata.
Facile.
Fuxia.
Figata.
Mettiamola così, se ho ancora interesse ad estrarre la carta di credito dal portafogli vuol dire che magari la luce in fondo al tunnel non la vedo, ma inizio almeno a sentire i rumori.


ridi, ridi piccolo pagliaccio
Lingua – s.f. organo muscolare della cavità boccale con funzioni gustative, tattili, di masticazione e articolazione del linguaggio.
Questa è la storia di una piccola clown, con gli occhi turchini e il naso coperto di lentiggini,  mani minute e prepotente immaginazione.
Il destino l’aveva recapitata con un pacco della postalmarket, molto prima che questa fallisse sgomentando massaie in cerca di massaggiatori per il viso e vestaglie di flanella, in un modesto ma felice circo anglo-italiano di abilissimi equilibristi dell’affetto, mirabili trapezisti dello stipendio, diligenti domatrici delle buone maniere e irriducibili giocolieri del sorriso.  
La piccola clown cresceva serena e grassoccia come una frittella di mele con la cannella tra gli spaventi degli spigoli del tavolo in cucina, le abrasioni da moquette alle ginocchia e gli incomprensibili vocalizzi degli altri due alti componenti dell’allegra combriccola.
Curiosava tra gli stati d’animo di chi la circondava con silenzioso interesse incastrando così la sua delicata presenza tra una tartaruga all’occorrenza molto sportiva e un misterioso mondo tutto suo di pastelli, orsacchiotti di pezza e ignoranza di chi sia Manolo Blanhick per alcuni spensierati anni.
Un giorno poi la postalmarket tornò e recapitò per errore 2 gemelli anziché un solo rumoroso nanetto mettendo fine alla sua carriera solista di lanciatrice di pastina in brodo  e logorroica oratrice dal seggiolone.
Il suo apprendistato continuò comunque allegro tra elegantissime barbie monche e impunito pongo tra i capelli, con piccole ma applauditissime performance per ristrette platee di compiacenti estimatori finchè giunse il momento di fare il gran salto e finalmente debuttare di fronte al grande pubblico.
Iniziò infatti verso il quinto anno di vita per la piccola clown l’ansia della mano sudata e del carpiato cardiaco che terrorizza ogni circense con un po’ di buon senso e moderato senso di inadeguatezza.
La piccola clown detestò l’asilo dal primo momento che ci mise piede, l’odore di refettorio e di tacchetti di liquirizia di suor Benvenuti-all’inferno-di-tutti-questi-altri-bambini-urlanti la tormenta ancora adesso che è una provetta cavallerizza e appassionata domatrice del sorriso.
Dopo l’asilo arrivarono le elementari, e il peso crudele della consapevolezza di non poter mai arrivare a uguagliare la bionda ballerina americana delle cicale televisive le spezzò definitivamente ogni illusione di arrivare mai a indossare con dignità la parrucca il boa di piume e le ciglia finte di Moira Orfei.
La piccola clown si arrese definitivamente al silenzio alle medie, orribilmente miste, trascinando la sua carriera poi tra alterne fortune e selezionate confidenti, pietose interrogazioni balbuzienti di latino e matematica e irriverenti lezioni di inglese per tutto il quinquennio del liceo.
La piccoletta infatti, cresciuta in un’arena di scintillanti abbracci di paillettes e amorevoli carezze di piume di struzzo, diventava muta  di fronte al pubblico calloso del mondo reale.
La convinzione che i suoi pensieri di brina e la solitudine del suo entusiasmo di tulle rosa non fossero più di interesse per nessuno le paralizzò definitivamente la lingua.
La piccola clown pensò che avrebbe allora tenuto per sé quello che sentiva, e divenne finalmente una vera clown.
Far ridere divenne il suo modo di comunicare, indagava in silenzio le debolezze del mondo coriaceo che la circondava e colpiva con sottile precisione, educato realismo o spropositata fantasia le umane imprese e debolezze dei rinoceronti intorno a lei.
Coloro che avevano il dono della curiosità gentile di vedere oltre l’apparenza di questo grazioso e irriverente scoiattolo in tutù e cercavano la verità, trovavano un mondo di fragile timidezza e timoroso ottimismo incarcerato.
Più spesso si scontravano però con un eloquente sorriso sigillato o una fuorviante battuta al vetriolo.
Far ridere era la corazza della piccola clown, difficilmente si sarebbe spontaneamente rivelata alla ineducata indagine di chi non avesse dimostrato di sapere cosa fossero un trapezio o un trampolino, e la grossolana insistenza altrui la portò talvolta a eruzioni cutanee, paralizzanti emicranie, herpes cronici, lieve sovrappeso e sofferte separazioni.
Col tempo la piccola clown si rese conto che la situazione era oramai insostenibile, e si decise a rivolgersi a un medico della lingua.
Ma il luminare sapiente metteva in bocca alla piccola clown parole che non erano sue, la costringeva a spintonare quando avrebbe voluto danzare, a parlare di serpenti anziché lipizzani, a vedere uomini gretti e grigi anziché scintillanti equilibristi.
E così mollò il colpo: lei non voleva diventare come gli altri, lei voleva essere se stessa in mezzo agli altri.
A questo punto la piccola clown era molto triste, forse non c’era posto per lei in questo mondo.
Decise che sarebbe rimasta nel suo circo e avrebbe continuato a far ridere con perfida e privata dolcezza la sua ristretta congrega di piccole fattucchiere, elfe e follette e chissà forse un giorno i sindacati e un governo sbagliato avrebbero costretto tutti gli uomini a capire che  il mondo non era solo donne nude scodinzolanti e prevaricanti fuoristrada metallizzati.
Una sera di marzo poi incontrò un ragazzo che non ballava come gli altri, non rideva come gli altri, non ascoltava la musica degli altri, non gli interessavano le automobili veloci e i videofonini, ma i bambini e l’acqua, era prigioniero di un lavoro incravattato e di una corazza di solitarie battaglie, aveva un sorriso magico e i baffi malandrini di mangiafuoco.
Lei  gli donò a suo modo il suo spirito di animaletti, di raso e velluto porporino, pizzo e nastri colorati, di risate e follie e spumose bollicine bionde, di capriole e danze, di idiomi forestieri e dolci contorsionismi domestici sudati.
Con lui la piccola clown imparò un sacco di modi per usare la lingua.
Purtroppo non abbastanza però, perché ancora non aveva vinto la sua incapacità di collegare la lingua al proprio cuore e a comunicare.
Questa storia non ha un lieto fine, o perlomeno la piccola clown si ritrovò ancora una volta sola, ma decise che questa volta non sarebbe finita così, con un pugno di segatura e tre palline di cacca di cavallo secche.
Nel frattempo infatti aveva imparato che dove non arriva la lingua, possono arrivare le parole scritte, e adesso continua ancora a farsi un sacco di piroette e capriole nella testa, ma qualcuna se la posta pure nel suo blog.


doggy bag
I meccanismi di elaborazione di un lutto rimangono per me protetti, come troppo spesso mi accorgo avviene per buona parte dei miei processi mentali, da un misto di pudico riserbo, insondabile testardaggine e implacabile severità.
Trovo conforto solo nell’epurazione da tutto ciò che mi ricorda la persona perduta, in una sorta di infantile rifiuto  della sua esistenza, sigillo il mio sacchetto mentale, tentando così in realtà di seppellire in qualche anfratto nascosto la sofferenza del distacco da chi ho lasciato troppo entrarmi sotto la pelle, nel cuore e nell’anima, e perdendo tuttavia nell’impresa anche parte di ciò che di positivo è stato nell’esperienza.
Inutile la consapevolezza che in questo nascondermi alimento anche improvvise esplosioni nostalgiche e violenti rimpianti dovuti alla pavida fuga dal vissuto non metabolizzato che ovviamente  tornano a flagellarmi scatenate da un qualsiasi insignificante dettaglio dell’imprevedibile scorrere quotidiano dell’esistenza, i nostri sensi ci arricchiscono ma sono anche beffardamente traditori.
Lascio così che la morbida accoglienza della mia casa mutilata si contragga nell’espulsione di uno spazzolino,  un biglietto di uno spettacolo di cabaret, che mi nasconda un disco, un qualsiasi oggetto che possa ricollegarmi alla persona uscita dalla sua porta e dalla mia vita, e che l’impresa poi positivamente si allarghi a tutto il ciarpame che tendo a collezionare o lasciar bighellonare per mesi sparso per le mie stanze dense o scadere nel mio indolente frigorifero.
Rimuovo. Rifiuto in blocco abitudini, e possibilmente contatti, nel bene e nel male.
Questo mio difetto probabilmente fa di me la ex-ragazza migliore del mondo, sopratutto per le dame successive.
Una volta finito l’amore, e il consumo fisico che ci avvicinava, non riesco ad accontentarmi di un cordiale surrogato fatto di sorrisi di circostanza e dettagli insignificanti sulla resistenza ai virus stagionali.
Una volta condivisa pelle,  palato, sonni, respiri, quale poca cosa può essere una formale domanda, una telefonata ogni tanto.
Ridicolo.
Tu mi hai incoronato, mi hai fatto gridare e ridere e piangere e ricadere sulla terra.
Io non sarò mai tua amica.
La goffaggine di un “come stai?” ripetuto tre, quattro volte, nel corso di occasionali incontri inevitabili in una solita città è chiara spia di ciò che si vorrebbe sapere ma che non è più dato di chiedere.
Come vivi, cosa provi, cosa desideri, come dormi, cosa respiri.
A che punto sei della tua strada.
E con chi.
Battisti la sapeva lunga. O forse semplicemente in questi momenti siamo tutti più uguali che all’ikea.
In ogni storia che finisce brucia strisciante il dubbio di non essere stati abbastanza.
Abbastanza coraggiosi, abbastanza deboli, abbastanza se stessi, abbastanza docili, abbastanza belle, abbastanza femmine, abbastanza ricchi, abbastanza colti, abbastanza.
E abbastanza fortunati.
Ecco forse è questo il pensiero che mi tormenta, la solita umana invidia che torna a rodere come il cinturino di un sandalo stretto.
Coadiuvato con efficace tempismo dal raccapricciante dettaglio pettegolo appreso casualmente in questi giorni riguardo a persone pressoché sconosciute, sulla imperturbabile capacità tutta maschile del caso di  permettere a una donna subentrata di far libero uso di profumi, creme, belletti o indumenti notturni della precedente.
Per quanto innegabile e anzi necessaria una eredità psicologica e degli affetti trascorsi, in fondo noi siamo il risultato delle nostre esperienze, non possiamo cancellare anche volendo il passato sentimentale di un partner, tuttavia una simile grossolana promiscuità nei gesti intimi del quotidiano mi fa orrore, come stringere tra le braccia una donna che profuma di un’altra, come sentirsi desiderate indossando un fantasma?
Davvero allora l’uomo ama indistintamente tutte le donne, mentre le donne amano quell’uomo?
O devo accettare che la mia è solo superbia, amara presunzione di essere stata speciale, diversa?
Chi ho amato resta per me unico, inconfondibile, gelosamente custodito quiescente da qualche parte, come le sensazioni provate, dannatamente pronte all’agguato in una canzone, una spezia, il profumo di un soffio incrociando la folla.
Tirandomi dietro una porta con la promessa di non interferire con inopportune e maleducate insistenze tardive il percorso di vita altrui esigo fragile il rispetto del tempo condiviso.
Non fidandomi della natura maschile, qui mi rivolgo alle signore: per cortesia nell’improbabile caso li lasciassi, non usate i miei avanzi, per carità gettate via il mio doggy bag.

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